Scrivere e pensare nell’era digitale

Per governare il prepotente sviluppo della tecnica dosi massicce di cultura critica

A colloquio con Franco Lo Piparo, a cura di Massimiliano Cannata

“Il mondo è cambiato radicalmente, siamo appena agli inizi di una rivoluzione che non ha precedenti. Lo Smartphone che teniamo in tasca ha modificato la nostra vita quotidiana, il nostro modo di relazionarci, il nostro essere nel mondo. In questo contesto scrivere sarà un problema, semplicemente perché l’IA scrive meglio di noi. Distinguere tra la scrittura umana e quella artificiale non sarà facile. Cosa accadrà è difficile dirlo. Esercitare la critica, educare i giovani ad argomentare e contro argomentare, avrà un’importanza decisiva. La mia generazione, che è quella del ‘68, era abituata al confronto dialettico, oggi servirebbe un po’ di contestazione, ben argomentata si intende, ma servirebbe”. Franco Lo Piparo, filosofo del linguaggio, allievo di Tullio De Mauro, professore emerito dell’Università di Palermo, ha ricevuto a Mistretta il massimo riconoscimento alla carriera in occasione della XVIII edizione del Premio Maria Messina. Lo abbiamo intervistato traendo spunto dalla lezione che ha tenuto presso il Circolo Unione della città su una grande questione del nostro tempo: scrivere e pensare nell’era digitale. Intuitivamente crediamo tutti di conoscere il legame che sussiste tra scrittura e pensiero, spiegarlo è reso ancora più difficile dai cambiamenti in atto che stanno generando una nuova tecnica e una grammatica espressiva ancora poco conosciuta.

Prof Lo Piparo, abbiamo perso la bussola. Le categorie della conoscenza si stanno modificando, sollecitate dalla rivoluzione digitale?

Viviamo in un mondo digitalizzato. Lo sappiamo non da oggi. Siamo abituati ad avere in tasca un oggetto che ha una potenza di calcolo e una capacità di memoria superiore a quella dei PC che gli americani hanno utilizzato per lo sbarco sulla luna nell’ormai lontano 1969. I saperi enciclopedici, le informazioni più disparate, il nostro essere nel mondo “poggia” sullo smart phone. Consultiamo le app, che sono già una manifestazione dell’intelligenza artificiale, per andare al cinema, per cercare un medico, per sapere se c’è traffico, per scegliere un ristorante. Abbiamo fatto tutto questo pensando di essere e valere “più della macchina”.

Fino a prova contraria è così, non crede?

Fino a prova contraria, appunto. Ma chi stabilisce il grado di intelligenza e la differenza tra l’uomo e la macchina? Il matematico inglese Alan Turing (1912-1954), aveva inventato il celebre test che consentiva, in ambiente isolato, di misurare la differenza di comportamento tra un individuo e un pc. L’elaboratore perdeva sempre, in quanto non sa parlare, né pensare con le parole, né tanto meno argomentare. Quest’anno è successo però qualcosa di imprevisto.

A che cosa si riferisce?

Alcuni giornali americani prima e italiani poi, a cominciare da Il Foglio, hanno inserito un articolo prodotto con l’IA chiedendo ai lettori di riconoscerlo. Io stesso ho partecipato a questa sfida, ne sono uscito sconfitto. ChatGPT sigla che ormai conosciamo, e che si riferisce a questo eccezionale dispositivo digitale capace di intelligenza generativa, come la si definisce oggi, scrive meglio di uno studente mediamente colto, ma anche meglio di molti docenti. Ho scaricato la versione più avanzata e mi stupisco ogni volta che sollecito delle risposte.

Come spiega in un suo saggio: “Aristotele e il linguaggio” (ed. Laterza) la scrittura è una tecnica raffinata, la stessa tecnica che però oggi ci preoccupa per i suoi eccezionali sviluppi. Tanti timori infondati?

Difficile dare una risposta definitiva non sappiamo cosa accadrà. Non sono un apocalittico, e nemmeno un integrato, per usare le celebri categorie introdotte da Eco negli anni settanta. Cerco di essere realista. Ho fatto delle domande a Chatgpt, faccio leggere i miei articoli, le risposte sono puntuali e sensate. La cosa stupefacente è il tempo di elaborazione. Per scrivere un commento anche breve, o rileggere due cartelle noi abbiamo bisogno di parecchi minuti, la macchina risponde in 3-4 secondi. Trovo che sia un esito straordinario. Scienziati, filosofi, ingegneri, linguisti dovranno occuparsene per molti anni.

Le paure del “Fedro” di Platone, testo che Lei utilizza molto nelle sue lezioni universitarie, di fronte alla nascita della scrittura alfabetica tornano di attualità con l’avvento dell’IA?

Platone guardava con sospetto alla scrittura alfabetica, pensava che creava dei falsi sapienti, persone ignoranti che si ritenevano colte venivano alla ribalta, facevano opinione, diremmo con il linguaggio attuale. Comprensibili i timori del grande filosofo. È sempre accaduto nella storia dell’umanità. Il telaio meccanico spaventava perché avrebbe tolto lavoro, anche l’invenzione della stampa sconvolse equilibri di potere. Basti dire che la riforma protestante non sarebbe stata possibile senza l’invenzione dei caratteri mobili. Per la prima volta un testo sacro non aveva più bisogno di un interprete, il pubblico vi poteva accedere liberamente, si trattò una rivoluzione, un salto grandissimo. La stampa mise sotto scacco non solo il potere della chiesa, ma anche quello delle monarchie dell’epoca. Bisognava riorganizzare tutto, ripensare la leadership, ma anche il lavoro. Anche la città nasce con la scrittura alfabetica che fissa le regole cui tutti devono attenersi. Senza Gutenberg la società, come la vediamo oggi, non sarebbe concepibile. Prima dell’avvento della scrittura l’oralità fondava la convivenza, utilizzando simboli, linguaggi e pratiche, che con l’avvento dell’era moderna si sono modificati. Pensiamo alla nascita dei giornali, al ruolo decisivo sulla formazione dell’opinione pubblica che hanno esercitato. Ma ora siamo ancora un passo ancora oltre.

Cosa vuol dire?

Che siamo tutti diventati soggetti attivi di scrittura pubblica. È questa la grande novità politica del web. Una novità tutta da studiare, che indignava l’ultimo Umberto Eco infastidito dalla possibilità che anche l’ultimo ‘imbecille’ potesse fare opinione intervenendo sulle varie piattaforme social. Eco si sbagliava, perché non si tratta di un fenomeno superficiale, le implicazioni sono molteplici e richiedono uno studio attento.

Byung-Chul Han, l’autore di “Infocrazia”, a questo proposito denuncia la crisi dell’agire comunicativo. I Like non farebbero riflettere, negano l’ascolto, l’alterità, creano confusione tra identità e opinioni. L’idea di Habermas, della democrazia che si fonda sul confronto tra opinioni che nascono dalla discussione sembra esaurita. Con quali conseguenze?

Bisogna uscire da alcuni errori interpretativi. Si pensa che il like sia per definizione emotivo, verticale, che l’argomentazione sia invece orizzontale e razionale. Ma non sempre nell’epoca pre digitale noi umani eravamo razionali e argomentativi, mentre oggi saremmo tutti impulsivi, irrazionali, in una parola superficiali. Bisognerebbe interrogarsi su cosa sta dietro un like, che spesso presuppone delle argomentazioni.

Costruire un “esito liberaldemocratico del digitale” ha scritto su Il Foglio. Proposta interessante, ma fino a che punto fattibile?

Mi rendo conto che è difficile da attuare, ma non abbiamo altra scelta. Lo stesso fatto che ci stiamo interrogando su questi problemi, dimostra che la democrazia non sarà certo il sistema ideale, ma non ne conosciamo di migliori. In Cina, Russia, Iran certe questioni non possono neanche essere poste. Esiste un capitalismo della sorveglianza, che supera ampiamente “1984” di Orwell. Quando usiamo questi strumenti siamo tracciabili. Eppure non ci chiediamo chi sono i proprietari degli algoritmi.

La fine dei confini, il tramonto del Leviatano e degli stati nazionali era stato già denunciato nel La fine dei territori celebre scritto di Betrand Badie. Identità camuffate, false notizie (l’Italia è il paese con il record di fake news) condizionano le scelte geopolitiche. Per rimanere al tema dell’intervista: siamo capaci di pensare a un ordine mondiale fondato su basi nuove?

In un mondo interconnesso non ci possono essere ricette semplici. L’unico approccio possibile è quello che definirei liberal, che significa conoscenza delle varie modalità con cui le versioni (ne abbiamo e ne avremo molte da ora in avanti n.d.r.) di chatGPT funzionano, esercitando CULTURA CRITICA. Le restrizioni legali servono poco, sarebbero rapidamente aggirate. La conoscenza è l’unica arma che abbiamo per sconfiggere il pregiudizio. La scuola e gli apparati culturali avranno il ruolo più importante in questo mondo complicato che abitiamo. Cerchiamo di non dimenticarlo mai.