Sicurezza negli ambienti ibridi

Sicurezza negli ambienti ibridi: guida strategica per Manager e Decision Maker

A cura di Mohammed Bellala

Negli ultimi anni, il concetto stesso di “ambiente IT” è cambiato radicalmente. Quello che una volta era un perimetro ben definito – uffici, data center, firewall fisici – oggi è diventato un ecosistema fluido, interconnesso e, soprattutto, ibrido.

Un ambiente ibrido integra infrastrutture on-premises, servizi cloud (pubblici e privati), applicazioni SaaS, dispositivi remoti e persino ambienti OT o edge. Una trasformazione spinta da esigenze di agilità, costi, flessibilità operativa. Ma ogni elemento di libertà introduce un grado di complessità e, spesso, una nuova superficie di attacco.

Per i manager e i decisori, non si tratta solo di scegliere “dove mettere i server” o “quale piattaforma adottare”. Si tratta di ripensare l’intera strategia di sicurezza con una mentalità nuova. E senza l’accompagnamento di esperti, l’ambiente ibrido rischia di diventare un boomerang.

Il falso senso di sicurezza del Cloud

Molte aziende che migrano verso ambienti ibridi, spinte dalla promessa di semplificazione e risparmio, presumono che “il cloud sia sicuro per definizione”. È un errore comune.

In realtà, i principali provider cloud adottano modelli di responsabilità condivisa: loro garantiscono la sicurezza dell’infrastruttura, ma la configurazione, la gestione degli accessi, la protezione dei dati ricadono quasi interamente sull’organizzazione cliente.

Nessun firewall perimetrale può proteggere un’applicazione SaaS mal configurata o un account amministratore cloud esposto senza MFA.

L’adozione di ambienti ibridi porta con sé vantaggi innegabili: scalabilità dinamica, maggiore continuità operativa, accesso globale alle risorse.

Ma ogni apertura – ogni tunnel VPN, ogni sincronizzazione ibrida tra AD locale e Entra ID (ex Azure AD), ogni workload containerizzato in cloud – rappresenta una nuova potenziale vulnerabilità.

Il manager moderno si trova davanti a una sfida: come governare un’infrastruttura fluida senza sacrificare la sicurezza o rallentare il business?

L’errore più grande: non farsi accompagnare da esperti

Una delle trappole più diffuse è quella della “sufficienza digitale”. Ovvero pensare che l’IT interno possa “capire tutto” o “fare da solo”. Ma la sicurezza ibrida non è una somma di tecnologie: è un equilibrio delicato tra governance, architettura e minacce in continua evoluzione.

Farsi affiancare da professionisti specializzati in cybersecurity ibrida – non solo consulenti, ma architetti con esperienza concreta in ambienti complessi – è un investimento, non un costo.

Un esperto può:
• Validare le scelte architetturali.
• Identificare configurazioni rischiose prima che diventino exploit.
• Formare il personale tecnico su minacce e strumenti avanzati.
• Supportare in incidenti reali, dove il tempo fa la differenza.

Una configurazione cloud errata, un privilegio eccessivo o un tunnel dimenticato possono aprire la porta a un attacco catastrofico. Serve qualcuno che sappia dove guardare.

I 5 pilastri della sicurezza in ambienti ibridi

  1. Identità come Nuovo Perimetro

Nel mondo ibrido, il concetto di perimetro fisico è obsoleto. L’identità digitale è oggi il vero gatekeeper. Questo rende cruciale adottare:
• MFA obbligatorio per tutti gli accessi, interni e remoti
• Conditional Access basato su rischio, geolocalizzazione, device posture
• Gestione delle identità privilegiate (PIM) per limitare e tracciare gli accessi elevati
• Audit continuo su gruppi, ruoli e deleghe cloud (IAM drift)

Le identità compromesse sono oggi il vettore d’attacco più frequente nei breach ibridi.

  1. Segmentazione e contenimento del rischio

In molte realtà aziendali, la rete rimane “piatta”, con ambienti cloud e on-premise interconnessi senza barriere adeguate. Questo facilita il movimento laterale di un attaccante una volta ottenuto l’accesso iniziale.

Per ridurre il rischio, è fondamentale:
• Separare logicamente gli ambienti, come rete utenti, server gestionali e risorse cloud.
• Limitare gli accessi in base ai ruoli, applicando il principio del minimo privilegio.
• Proteggere le connessioni ibride (es. VPN, sincronizzazioni directory) con controlli rigorosi.
• Monitorare i flussi di rete tra ambienti diversi, per rilevare comportamenti anomali.

Ogni connessione tra ambienti deve essere considerata un potenziale vettore di attacco e trattata come tale.

  1. Visibilità, telemetria e correlazione tra ambienti

Non si può proteggere ciò che non si vede. In ambienti ibridi, è fondamentale garantire una visione unificata e continua di ciò che accade, sia on-premise che nel cloud.

Ogni organizzazione dovrebbe implementare:
• SIEM centralizzato, con log provenienti da tutti i sistemi e applicazioni.
• Soluzioni di rilevamento e risposta estese (XDR), per endpoint, server e ambienti virtualizzati.
• Monitoraggio continuo di eventi e configurazioni, sia nei sistemi fisici che in quelli cloud.
• Correlazione automatica delle minacce, per evitare che alert isolati passino inosservati.

L’assenza di integrazione tra i vari sistemi di sicurezza spesso porta a una risposta tardiva agli incidenti. Un approccio unificato riduce drasticamente i tempi di rilevamento e contenimento.

Ma la sicurezza ibrida non è una somma di tecnologie: è un equilibrio delicato tra governance, architettura e minacce in continua evoluzione.

  1. Rafforzare sistemi, dispositivi e piattaforme

Uno dei punti più trascurati – ma tra i più efficaci – è il rafforzamento (hardening) dell’intera infrastruttura. Non richiede grandi investimenti, ma attenzione e costanza.

Per i dispositivi aziendali:
» Disattivare funzionalità obsolete e non necessarie.
» Limitare i privilegi amministrativi degli utenti.
» Isolare i dispositivi personali in ambienti separati.
» Utilizzare strumenti che impediscano l’uso di software non autorizzato.

Per i sistemi e i servizi aziendali:
» Usare configurazioni sicure già validate per server e applicazioni.
» Rimuovere l’esposizione diretta dei sistemi di gestione su internet.
» Monitorare costantemente lo stato di configurazione dell’infrastruttura cloud.

Per gli account con privilegi elevati:
» Evitare ruoli con accessi troppo ampi, se non strettamente necessari.
» Monitorare costantemente l’uso di chiavi, token e permessi critici.
» Applicare il principio del minimo privilegio e accessi temporanei solo quando servono.

L’hardening riduce la superficie d’attacco e aiuta a prevenire compromissioni. Deve essere visto come un processo continuo, non un’attività isolata.

  1. Preparazione, Incident Response e Test periodici

Anche con le migliori difese, gli incidenti accadono. La differenza la fa la reazione.
• Un piano di incident response ibrido deve includere cloud, on-prem e dispositivi remoti.
• I test periodici (pentration test, red team, breach simulation) aiutano a scoprire punti ciechi.
• Devono esserci contatti e procedure già pronti per escalation su fornitori cloud, MSSP, legali e assicurazioni cyber.

Conclusione

Governare l’Ibrido richiede maturità e consapevolezza

Non esiste sicurezza perfetta, ma esiste una sicurezza matura, misurabile, adattiva.

Un ambiente ibrido ben governato è un fattore abilitante, non un rischio. Richiede visione strategica, supporto da esperti, e la consapevolezza che la sicurezza non è mai “finita”, ma è parte integrante del ciclo di vita aziendale.

Chi guida oggi la trasformazione digitale – CEO, CIO, CISO, CTO – ha una responsabilità chiave: non solo costruire infrastrutture performanti, ma soprattutto costruirle in modo sicuro, resiliente e sostenibile nel tempo.

“Ibridare” senza proteggere significa solo moltiplicare i punti deboli. Ma farlo con metodo può diventare il punto di forza più potente dell’intera strategia aziendale.