Lo spirito del terrorismo: un’analisi sociale

A cura di Marco Santarelli

Lei parla spesso di Terrorismo sociale, cosa intende?

Proviamo a mettere un punto alla disinformazione: la parola terrorismo, etimologicamente affibbiata alla parola francese terrorism, in realtà deriva da terròrem, dal verbo latino terreo, che significa spaventare, derivante a sua volta da ex-pavèntare, esteso al participio presente ex-pàvens. Simultaneamente spaventare e paventare, cioè trasmettere paura attraverso un evento e far percepire e ingigantire quello che si propaga nella società e nella popolazione, che fanno a loro volta da cassa di risonanza. Questo vuol dire che nessuno di noi è più al sicuro. È in gioco la nostra quotidianità. Siamo possibili bersagli, destinatari di eventi terroristici diretti ai servizi essenziali per noi. Le cosiddette Infrastrutture Critiche, infatti, possono essere attaccate provocando interruzioni di linee di sopravvivenza (cibo, acqua, energia e così via). Anche se non attaccati direttamente su beni primari e sostanziali, possiamo venire attaccati attraverso il nostro tessuto sociale, decisionale e informativo, come avviene per le fake news e l’indirizzamento delle decisioni. È terrorismo anche questo, cioè parte da questo concetto di terrorismo, come abbiamo visto. Quindi sociale perché riguarda tutti noi.

Come spiegato in “Sociological analysis of new terrorism between dynamics of radicalization and programs of de-radicalization”20 (Analisi sociologica del nuovo terrorismo tra dinamiche di radicalizzazione e programmi di de-radicalizzazione) di Patrizia Laurano e Giuseppe Anzera, già negli anni ‘40 si è iniziato a parlare di Social Movement Theory, o SMT, ossia di evoluzione della minaccia terroristica, che permea nel tessuto sociale. Si pensava che i movimenti emergessero da processi e comportamenti irrazionali che si registravano in condizioni ambientali che portavano malcontento. Da qui, dalla sottomissione passiva a forze sociali travolgenti, l’adesione degli individui al movimento. Negli anni ’80 e ‘90 ci si è accorti di un aspetto più razionale dietro ai processi e il movimento doveva sopravvivere. Per farlo, era necessario creare un corpo di supporter per sostituire le perdite e diffondere la sua influenza. I soggetti seguivano un iter di reclutamento incentivante e attento alla selezione dei più adatti per persuadere le reclute ad aderire, aspetti che necessariamente trovano maggiore forza nei legami sociali e nelle relazioni. Alla fine del secolo scorso, sono nate due nuove tendenze all’interno della SMT, ossia la New Social Movement Theory, incentrata sui processi macro-strutturali, e la Resource Mobilization Theory, attenta ai processi contestuali come le dinamiche di gruppo. Una terza tendenza, individuata da Anja Dalgaard-Nielsen del Danish Institute for International Studies, è chiamata Framing Theory, che si concentra sulle narrazioni e i significati che vengono prodotti dai movimenti e dalle collettività sociali. Il movimento punta alla diffusione di un messaggio che sia più aderente possibile a interessi, atteggiamenti e credenze dei soggetti, portandoli a vedere la realtà così come la vede il movimento stesso. Questo aspetto è stato chiamato frame alignment e, secondo Dalgaard-Nielsen, l’approccio della Social Movement Theory, ma soprattutto della Framing Theory, può favorire la comprensione della radicalizzazione, dato che il focus è sui processi e non solo sui dati, con un’analisi di livello intermedio tra macro e micro. In tale contesto si sviluppano delle cel lule che a loro volta producono delle reti, che chiamerei informative, che minano, quindi, ogni tipo di assetto di pace di ogni Stato democratico. Questo fa tramontare l’idea, soprattutto dopo il 2001 [attacco alle Torri Gemelle, ndr] e dopo gli attentati a Parigi, Madrid e Berlino, che viviamo in una pace perenne o di base, in cui i cosiddetti stati di necessità o di emergenza sono momenti eccezionali. Al contrario, è giusto pensare che le misure straordinarie non siano più riconducibili al terrorismo, ma alle crisi climatiche (tra cui terremoti e tsunami, ad esempio), pandemiche o, in generale, estranee alle questioni umane. Nell’ordinamento di una società il terrorismo è collegato ai poteri ordinari e a quelli speciali, non a cause astruse o più grandi di noi. Quindi, la domanda principale non deve essere cosa facciamo, ma come lo facciamo, evidenziando limiti procedurali e sostanziali di provvedimenti d’emergenza finora risultati troppo poco conformi alle persone stesse. Come sostiene Domenico Tosini nell’articolo “Sociologia dell’antiterrorismo: la struttura della lotta al terrorismo nelle democrazie liberali”21, il terrorismo evidenzia la perdita di controllo dello Stato e, di conseguenza, l’incapacità di proteggere i cittadini. Il terrorismo, in questo modo, “erode la fiducia dei cittadini nell’efficienza del proprio stato, così privandolo di una delle fonti più importanti della legittimità dell’uso della forza fisica – e, quindi, della legittimità della sua sovranità (com’è noto da Hobbes in poi)”22. In sostanza, per le persone è un rischio alla propria sicurezza, per lo Stato una minaccia alla sovranità.

Come nascono le reti nel Terrorismo sociale e come si sviluppano fino a farlo diventare organizzato?

Il terrorismo si espande, secondo un punto di vista contemporaneo, come struttura e configurazione di reti organizzate. Le reti si sviluppano e si ritraggono come un elastico, dando più o meno valore aggiunto. In questo scenario lo sviluppo è nella costituzione di reti compiacenti che fanno sì che il terrorismo sia sociale perché alimentato soprattutto dal suo interno e, trasversalmente, da altre reti criminali. Crea l’illusione di una vita migliore, amplifica disagi, cresce, fa studiare, trascina con sé soggetti problematici che vogliono dare ai figli speranze che, invece, si rivelano solo delle illusioni. Cresciute queste reti (come coordinate o, raramente, cani sciolti) sviluppano la loro dialettica in un classico trittico: si individua qualcuno a cui raccontare ciò che si vuole fare (crescita del disagio e sviluppo di dipendenze tra persone), si sceglie un destinatario (un potere da combattere o un luogo) e si costruisce la strategia sul messaggio come narrazione (racconto, analisi premeditata di chi svolge l’attentato, cosa rappresenta e come si deve muovere tra studi approfonditi dello stesso attentato, spaventare). Il terrorismo, così facendo, diventa organizzato e, come tale, si amplia per esplorare l’infinità di forme di un’azione da intraprendere.

Vediamo qualche esempio che ci fa capire meglio come agisce il Terrorismo sociale.

Gli attentati del dopoguerra, dell’omicidio Moro, la facilità di gestire fondi per attentati della criminalità organizzata (con conseguente aumento della percezione del benessere verso quelle persone che non hanno possibilità di credito immediato) in Italia e l’attentato ai mercatini di Berlino del 2016 ne sono la stessa medaglia con facce diverse. La fotografia perfetta del terrorismo. Nel primo caso, quello degli attentati del dopoguerra, si lancia il messaggio simbolico della morte per sacrificare la stessa idea di democrazia con una precisa connotazione di potenza latente e mostruosa. Questo è un terrorismo ancora attivo che intende far emergere la compiacenza, come si nota in un documento molto interessante del 1992 del Senato della Repubblica23, tra professionisti, politici e terroristi. Un terrorismo che, appunto, abbiamo definito sociale. Ingranaggio stesso del tessuto sociale. Striscia, penetra e agisce grazie a soggetti insospettabili. Per il caso dell’attentato di Berlino del 2016, simile a quello di Nizza, Parigi o Vienna, i terroristi hanno approfittato delle variabili e delle connessioni che si sono costituite tra organizzazione perfetta, coincidenze e implicazioni, proponendo un’angolatura legata, questa volta, a una mondializzazione del concetto stesso di terrorismo. Infatti, dalle Torri Gemelle in poi, si assiste a questo tipo di terrorismo globale, appunto. Non è più solo sociale, ma si estende a un messaggio più alto. Ecco che, per Berlino, l’attacco è avvenuto intorno alle ore 20:15. Qui il tessuto sociale individuato non è lo scopo, ma il mezzo. L’atto è stato studiato proprio per questo: è avvenuto a Breitscheidplatz, nei pressi della Kurfuerstendamm, vicino alla chiesa intitolata al Kaiser Guglielmo, ovvero allo stesso tempo luogo centrale e obiettivo primario nella zona più commerciale della parte occidentale della città e molto frequentata, oltre che da residenti, anche da turisti. Questi ultimi erano il vero obiettivo. Questo tipo di terrorismo tende a voler trasmettere il messaggio non solo alle persone del luogo, ma al mondo intero. Il messaggio era ed è anche quello di avvertire altri Paesi. A questi possiamo abbinare, con tecniche diverse, quegli attentati che avvengono in luoghi pubblici, aeroporti, ambasciate (vedi quello dell’italiano Attanasio) e così via. Di solito la rivendicazione è l’atto finale che tende a destabilizzare l’idea stessa di democrazia mondiale. Ma non solo: si mira a trasformare il mondo attraverso il concetto di sacrificio che si realizza con la forza. Il punto cruciale, partito dalla civiltà illuministica e rinascimentale, è che nessuno ha mai ben capito che il Bene, il progresso, la tecnologia e l’innovazione crescono insieme al Male, ovvero insieme a chi li utilizza anche per altro. Si innesca una tattica che possiamo chiamare eccesso di realtà, ossia uno specchio della realtà stessa, come dice il filosofo Jean Baudrillard. Secondo quest’ultimo, il terrorismo è molto simile alla terapia del caos o della complessità. Uno choc iniziale provoca conseguenze notevolmente più ampie rispetto all’evento grazie all’evento stesso e alla comunicazione che si crea intorno a esso. Basta riprendere, appunto, il già citato attacco delle Torri Gemelle del 2001. Gli eventi stessi sono stati parte del gioco, nel loro manifestarsi, perfezionando l’evento come trauma simbolico.

Trauma simbolico significa anche conoscere meglio i fenomeni?

Il trauma simbolico fa partire l’ultimo atto che chiude la dialettica dei tre momenti, di cui sopra: la narrazione. Narrare è conoscere. Come ci ricorda l’etimologia stessa di narrazione. Ovvero, anche osservare per tanto tempo, infiltrarsi nella vita quotidiana, abbassare le difese percettive, attivare una rete di informatori, capire, destrutturare le informazioni e creare un piano preciso. Il legame tra terrorismo, narrare e conoscere è stretto. Narrare da gnarigàre, (purgare, ripulire, essere esperto di, conoscitore) e narro (racconto), i quali trovano a loro volta corrispondenze nella lingua greca (verbo gignosko, conosco). Entrambe rimandano a una radice sanscrita (gnâ), conoscere. Narrare come raccontare, che richiama la coppia legein-logos del greco antico. Narrare significa anche deformare, deturpare e violare le leggi costituite attraverso mezzi e civili inermi. La percezione della realtà con la narrazione viene molto amplificata, si generano una visuale e un’angolatura che servono prevalentemente a chi prepara l’attentato per imporre il proprio potere, barattare le proprie richieste e, soprattutto, avere gli strumenti per capire come prepararne altri e come gestire le criticità di quelli già organizzati. La minaccia terroristica attraverso la narrazione, il racconto, fa passare il terrorismo da globale (tendenzialmente attivo fino al 2016) a quello della porta accanto di oggi, generando psicologicamente il cosiddetto adattamento e assuefazione alla minaccia. Non c’è un terrorismo afghano o siriano, ce ne sono tanti che sfuggono all’opinione pubblica, ma che strisciano sempre più organizzati, coerenti (ahinoi) e che dialogano senza sosta.

In merito alla molteplicità del campo di battaglia, ha senso parlare di Terrorismo sociale?

Il terrorismo tendenzialmente si manifesta con armi nucleari, biologiche, chimiche, radiologiche, droni, automazione della IoT, sviluppo di stampanti 3D, social, psicologia, spazio, armi fisiche e così via. Il nemico è trasversale, supera la nazione di appartenenza. Il terrorismo è, però, da sempre, strategia, come detto, mondializzazione dei messaggi, al di là, che sia chiaro una volta per tutte, degli strumenti normativi o innovativi che, invece, vengono sfruttati in base al cambiamento della società. I due fenomeni non si muovono in modo sincronico. Non esiste un terrorismo degli strumenti, di cui si sta parlando sempre più, ma esiste un terrorismo endemico che ha alla base una rete, come detto, che attraversa una sua organizzazione perfetta, che porta solo dopo alla scelta degli strumenti che vengono utilizzati, mai il contrario. Come arginiamo questo fenomeno? Esistono tanti documenti e studi in merito. Uno molto importante è quello del 29 settembre 2021, redatto dal Parlamento Europeo, che si sviluppa su quattro assi per una migliore risposta condivisa: il primo è sui controlli di sicurezza per prevenire le infiltrazioni; il secondo è sullo sviluppo di una visione strategica da parte dell’Intelligence; il terzo è sul monitoraggio e sul contrasto della propaganda con la mobilitazione dello sviluppo e coordinamento di reti informative locali e non; il quarto consiste nell’affrontare la criminalità organizzata come fonte trasversale di finanziamento del terrorismo.

Note:
20. P. Laurano, G. Anzera, 2017
21. D. Tosini, 2005
22. D. Tosini, 2005, p 31
23. https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/908856.pdf