
Cybersecurity e credito: il tempo del fare è adesso
A cura di Sandro Sana
Viviamo in un tempo in cui la solidità economica di un’impresa non si misura più solo con bilanci ben redatti, flussi di cassa in ordine o margini operativi competitivi. Nell’era digitale, dove ogni azienda è potenzialmente esposta a minacce informatiche che possono paralizzare intere filiere produttive o compromettere dati sensibili, anche la “solidità digitale” diventa un criterio imprescindibile per valutare l’affidabilità di un’impresa. E oggi, a sancire questo cambio di paradigma, sono proprio le banche.
Già nel febbraio 2023, la Vice Direttrice Generale della Banca d’Italia, Alessandra Perrazzelli, in un intervento ufficiale ha parlato apertamente dell’importanza della resilienza operativa digitale delle imprese. Un concetto che fino a pochi anni fa era materia per addetti ai lavori e tecnici IT, ma che ora diventa una leva fondamentale nella valutazione del merito creditizio da parte degli istituti finanziari.
Dimenticate quindi l’idea che il rischio di credito sia legato soltanto a fattori economici e patrimoniali. Le banche stanno evolvendo il proprio approccio e oggi prendono in considerazione elementi che fino a poco tempo fa sarebbero sembrati roba da geek con il badge al collo. Parliamo di backup e piani di disaster recovery, della presenza (vera, non scritta su carta) di un piano di business continuity, di tecnologie come EDR, MFA, PAM, o ancora di quanto spesso si conducono penetration test e vulnerability assessment.
In parole povere: se la tua azienda non avesse un assetto di cybersecurity serio, potresti vederti chiudere le porte in faccia da chi dovrebbe finanziarti. O, nella migliore delle ipotesi, vederti applicare condizioni economiche peggiorative rispetto a un concorrente che ha fatto i compiti a casa. E le banche – che non sono note per il romanticismo – iniziano a pensare che prestare soldi a chi ha buchi di sicurezza sia un po’ come prestare l’auto a un diciottenne senza patente. Il botto, prima o poi, arriva.
Secondo quanto riportato recentemente anche da ItaliaOggi, gli istituti di credito si stanno attrezzando concretamente. Non è solo teoria da convegno: ci sono già strumenti di valutazione attivi, come il cosiddetto “cyber credit scoring”. E chi pensa che si tratti di una moda passeggera, rischia di fare la fine di chi nel 2008 diceva che il cloud era solo un hype.
Il vento del cambiamento, peraltro, non soffia solo da Roma o da Milano. È Bruxelles che ha tracciato la rotta con normative sempre più stringenti. Tra Digital Operational Resilience Act (DORA), Cyber Resilience Act e la famigerata NIS2, le imprese europee si trovano davanti a un bivio: adeguarsi, o restare fuori dal mercato. Anche se non sei una banca, se sei parte di una filiera strategica devi dimostrare di non essere l’anello debole. Perché oggi, il danno reputazionale viaggia a una velocità ben maggiore dei tuoi fornitori: basta un breach, e sei sulle prime pagine.
E non è un caso se nella Relazione annuale 2025 della nostra intelligence nazionale, il tema della sicurezza cibernetica è stato esplicitamente indicato come una delle principali sfide trasversali alla tenuta del sistema Paese. Il documento parla chiaro: la digitalizzazione è sì una leva di sviluppo, ma è anche una superficie d’attacco sempre più estesa, dove ogni vulnerabilità può essere sfruttata da attori ostili per destabilizzare economia, finanza e fiducia. Questo scenario, in continua evoluzione, impone una presa di coscienza anche da parte dei board e dei decisori finanziari: oggi, non puoi permetterti di prestare denaro a chi è un bersaglio ambulante.
La ragione è semplice quanto spietata: un attacco ransomware a una PMI può avere un effetto domino su clienti, fornitori e perfino su interi comparti industriali.
La storia recente ce lo ha insegnato a suon di blackout, supply chain ferme e disastri mediatici. E allora, se una banca deve decidere a chi prestare soldi, è ovvio che guardi anche quanto sei esposto e quanto sei pronto a reggere l’urto.
Ed ecco che entra in gioco la famosa “lista della spesa” della cybersicurezza. L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) l’ha messa nero su bianco: non basta dire di essere sicuri, bisogna dimostrarlo con misure concrete. Parliamo di sistemi aggiornati, gestione attenta degli accessi, backup cifrati e testati regolarmente, antivirus e firewall attivi, ma anche di formazione del personale (quello vero, non il corso fatto solo per firmare il registro) e di piani ben scritti per la gestione degli incidenti e la continuità operativa.
Non è più tempo per affidarsi a un antivirus gratuito e a una password scritta su un post-it. La cybersicurezza oggi è un sistema, un insieme di pratiche e tecnologie integrate, verificabili e... possibilmente funzionanti. E soprattutto non improvvisabili: non si può “acquistare” sicurezza con una fattura a fine anno, come si fa con le cartucce della stampante. Serve metodo, serve governance, servono teste pensanti.
Proprio per questo, alcune banche stanno strutturando vere e proprie checklist digitali. Le aziende che vogliono accedere al credito dovranno rispondere punto per punto, e fornire prove tangibili. In prospettiva, non è assurdo immaginare un vero e proprio “cyber rating” ufficiale, da affiancare al classico rating finanziario.
E questa non è solo una seccatura in più. È un messaggio chiaro ai consigli di amministrazione, ai CEO e ai CFO: la sicurezza IT non è più roba da lasciare in mano solo al CIO, al CISO o al IT Manager. Diventa una responsabilità di vertice. Un asset da gestire, misurare, comunicare e integrare nella strategia d’impresa.
Anzi, chi sa leggere tra le righe capisce che qui si gioca anche una partita di vantaggio competitivo. Le aziende che investono davvero nella sicurezza potranno ottenere condizioni migliori, mostrarsi più affidabili sul mercato e attrarre partner e clienti di livello superiore. Senza contare le gare pubbliche o le selezioni fornitore dove, ormai, certificazioni come ISO/IEC 27001 o l’adesione ai framework NIST CSF sono diventate un lasciapassare. In sostanza, la sicurezza sta diventando un moltiplicatore di business.
Tutto questo accade mentre, come evidenziato anche nell’Inserto Intelligence 2025 dedicato all’intelligenza artificiale, si moltiplicano le minacce ibride, le disinformazioni e le vulnerabilità tecnologiche. Il documento ci ricorda che lo sviluppo di tecnologie come l’IA deve andare di pari passo con un’etica della responsabilità e una governance affidabile. Perché non è solo questione di sicurezza informatica: è questione di sicurezza nazionale, democratica, industriale. È questione di fiducia.
In definitiva, il mondo del credito sta cambiando pelle. La sicurezza informatica è diventata un elemento chiave, al pari del patrimonio netto o del margine operativo lordo. Le imprese devono adeguarsi. Serve investire in tecnologie, certo, ma anche in cultura e governance. E soprattutto, serve capire che il tempo del “poi ci pensiamo” è finito. Ogni ritardo, in un mondo dove i cybercriminali agiscono in tempo reale, si paga. A volte, con interessi a sei zeri.
E qui entra in gioco il ruolo di chi si occupa di cybersecurity. Non solo tecnici, ma traduttori culturali. Figure in grado di fare da ponte tra il linguaggio tecnico e quello finanziario, di spiegare a una azienda cosa significa avere un SOC attivo h24, un processo di incident response o un’attività di Risk Analysis. Il futuro è di chi sa essere solido, competente, e soprattutto preparato.
E oggi, essere preparati significa anche questo: sapere difendere non solo i propri dati, ma anche la propria credibilità economica. Perché ormai, se non sei cyber, potresti anche non essere bancabile. E nel business, come nella vita, essere affidabili non basta: bisogna dimostrarlo. Altrimenti, il prossimo bonifico lo vedrai… col binocolo. O peggio: te lo sognerai in deepfake.





