AI, regole ed educazione

Cambiamo il modo di scrivere le regole e educhiamo le persone all’AI per renderla nostra alleata e non nemica

A cura di Guido Scorza

Una delle sfide più importanti, ambiziose, direi epocale davanti alle quali l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società ci pone è quella di riuscire a cogliere le straordinarie opportunità che l’intelligenza artificiale ha da offrirci limitandone quanto più possibile i rischi.

In questa prospettiva ci sono due questioni che a me appaiono più importanti delle altre.

La prima riguarda il tempo.

Ci sono voluti sessantadue anni perché cinquanta milioni di persone utilizzassero un’automobile per spostarsi, sessanta perché avessero un telefono a casa, quarantotto perché disponessero dell’elettricità e ventidue perché possedessero un televisore.

Il computer, per conquistare lo stesso pubblico di cinquanta milioni di persone ci ha messo quattordici anni, il telefonino dodici e Internet sette.

ChatGPT, il servizio online basato sugli algoritmi di intelligenza artificiale generativa di OpenAI, in meno di due mesi ha raggiunto cento milioni di utenti attivi mensili, il doppio di quelli raggiunti da YouTube in quattro anni.

Sono numeri che mi sembrano sufficienti a raccontare la costante e inarrestabile accelerazione del ritmo di diffusione di prodotti e servizi che hanno indiscutibilmente cambiato significativamente le nostre vite e avuto un impatto rivoluzionario sulla società.

Senza dire che le innovazioni di oggi sono straordinariamente più complesse di quelle di ieri e hanno un impatto enormemente più trasversale sulla società.

Non c’è paragone, tanto per fare un esempio, tra l’unica funzione di un telefono fisso di ieri che serviva solo per parlare con un interlocutore a distanza e le migliaia di possibili funzioni di uno smartphone, anche di non più nuovissima generazione, nel quale la funzione di comunicazione vocale è, ormai, diventata quasi residuale rispetto a tutte le altre possibili forme di impiego.

Questa accelerazione del ritmo dell’innovazione tecnologica, dunque, rappresenta, a mio avviso, uno dei fattori più rilevanti da tenere presente nell’interrogarci sulle forme e i modi con i quali provare a governare questa era del cambiamento perché sappiamo tutti che la migliore delle regole se non è tempestiva è irrilevante nel migliore dei casi, e controproducente nel peggiore.

Quando nella seconda metà dell’800 le prime auto hanno iniziato a circolare sulle strade inglesi, il Parlamento varò il c.d. Red Flag Act, datato 1865, una legge che imponeva un limite di velocità di 3,2 chilometri orari e, soprattutto, stabiliva che un uomo, con una bandiera rossa in mano, dovesse precedere ogni automobile di circa 55 metri per segnalare il pericolo.

Il Red Flag Act rimase in vigore per oltre trent’anni, fino al 1896.

Mi sembra abbastanza evidente che la migliore delle regole con la quale oggi volessimo provare a governare una tra le infinite applicazioni dell’intelligenza artificiale non potrebbe mai avere una vita tanto lunga perché diventerebbe immediatamente obsoleta e rischierebbe di ritrovarsi abrogata per desuetudine come sarebbe accaduto al Red Flag Act se a qualche mese dalla sua entrata in vigore le macchine avessero cominciato a volare, non potendo, più, evidentemente, lo sbandieratore precederle in volo.

Questo è il contesto che abbiamo oggi davanti.

Non ho risposte definitive al problema ma, personalmente, credo che dovremmo avere il coraggio di modificare radicalmente approccio rispetto al passato, smettere di pretendere di disciplinare a livello di dettaglio taluni fenomeni e delegarne la governance, sulla base di una manciata di criteri di delega stringenti nel metodo più che nel merito, alle Agenzie e alle Autorità indipendenti.

Solo così, forse, possiamo sperare di scongiurare il rischio di continuare a prevedere per legge che uno sbandieratore cammini davanti alle automobili per avvisare del pericolo quando le automobili frattanto volano.

Cambiamo il modo di scrivere le regole ma non rinunciamo, come qualcuno inizia a suggerire, a scriverle, non rinunciamo a regolare l’innovazione cadendo nel tranello di chi vorrebbe farci credere che le regole frenano l’innovazione.

Non è vero.

Al contrario le regole – ovviamente a condizione che siano quelle giuste e soprattutto che arrivino in tempo – orientano e promuovono l’innovazione spingendola nell’unica direzione nella quale è giusto che vada la massimizzazione del benessere collettivo e la maggiore possibile distribuzione delle opportunità che offre.

Rinunciare a regolamentare l’innovazione, significa lasciare che la tecnologia diventi regolamentazione e che la società sia governata da software, algoritmi e interfacce progettati e disegnati in nome di interessi privati di pochi, normalmente orientati prevalentemente al profitto.

Significa insomma lasciare che la tecnocrazia abbia la meglio sulla democrazia.

La seconda questione, non meno importante della prima e ad essa strettamente correlata riguarda l’educazione digitale.

La società è sempre più digitale e conoscere il digitale, almeno nei suoi rudimenti, è sempre di più un pre-requisito di cittadinanza irrinunciabile.

Chi non ha un livello di adeguate competenze digitali è un cittadino di serie B, anzi, peggio, è una persona di serie B, perché l’impatto di questo deficit di competenze si abbatte senza pietà in ogni ambito della nostra vita.

Eppure, l’Italia non ce la fa, non ce la facciamo a capire per davvero questo principio elementare e a correre ai ripari con la determinazione e l’urgenza che servirebbero.

L’ultimo rapporto ISTAT lo certifica in maniera impietosa.

“Le competenze digitali giocano un ruolo fondamentale nel favorire la transizione digitale e al tempo stesso contrastare l’emergere di divari che possano compromettere l’equità e l’inclusione sociale. Il programma strategico UE per il decennio digitale13 ha tra l’altro l’obiettivo, da raggiungere entro il 2030, di portare all’80 per cento la quota della popolazione di età compresa tra 16 e 74 anni con almeno competenze digitali di base14. Nel 2023, tale quota si attesta a poco più della metà (55,5 per cento nella media UE27) e l’Italia con il 45,8 per cento si colloca al ventiduesimo posto della graduatoria, con una distanza di 20 punti percentuali dalla Spagna (66,2 per cento) e di 14 punti percentuali dalla Francia (59,7 per cento)”.

Non sono opinioni, sensazioni, percezioni soggettive.

Lo dicono i numeri.

Siamo il fanalino di coda di un’Europa che già di suo è indietro rispetto al resto del mondo.

Onestamente davanti a dati di questo genere – che nessuno si offenda – ma ogni altro discorso sul governo dell’intelligenza artificiale, sulle regole, sull’impatto dei nuovi prodigi artificiali sulla società, sulle opportunità che non dobbiamo lasciarci sfuggire, a me sembra da una parte vuoto e superficiale e dall’altra poco consapevole e, forse, persino incosciente.

Prendi la più potente e disruptive tecnologia che l’ingegno umano abbia mai progettato e sviluppato e mettila nelle mani di oltre trenta milioni di persone, la metà della popolazione italiana, completamente a digiuno di qualsiasi competenza digitale di base e il migliore degli scenari possibile sarà quello che si avrebbe se trenta milioni di italiani tutti insieme, senza mai essere saliti su un mono pattino elettrico decidessero di farlo esattamente nello stesso momento nelle vie trafficate della stessa città.

Niente di più pericoloso.

E non basta.

Perché mentre i primi trenta milioni, quelli mai saliti sul monopattino, starebbero a terra a contare le ferite, altri trenta milioni, quelli che hanno avuto la fortuna di imparare a portare il monopattino, sarebbero i primi a arrivare a scuola al mattino, a entrare al lavoro, a mettersi in fila negli uffici pubblici e negli ospedali per esercitare i loro diritti civili e garantirsi una salute migliore.

Questo è, oggi, il Paese nel quale viviamo.

Prima lo capiamo, prima, forse, facciamo un’inversione a “U” e accettiamo l’idea che ciò di cui abbiamo veramente e drammaticamente bisogno – ma domani mattina – è dichiarare guerra all’analfabetismo digitale come nel secondo dopoguerra si fece con quello funzionale.

La migliore delle tecnologie nelle mani di chi non sa usarla è pericolosa per sé e per gli altri e se metà del tuo Paese non sa usarla e quella tecnologia diventa parte integrante dell’infrastruttura di base di quel Paese, il Paese in questione non ha nessuna chance di essere democratico, di essere giusto, di essere equo, né di competere per davvero nella società globale.